Donne ed emozioni al lavoro

La donna dona il proprio contributo emozionale nel privato e nel sociale. Non si tratta di un limite, ma di un valore aggiunto specialmente in ambito professionale.
di Paola Caracciolo
Articolo 1 della Costituzione Italiana: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Con un incipit così chiaro e solenne, difficile dubitarne, quasi impossibile: il Lavoro ricopre un ruolo fondamentale nelle nostre vite e nulla può sostituirlo. Poichè da sempre il Lavoro possiede una duplice dimensione. La principale è legata al bisogno, al nutrimento e al sostentamento materiale dell’essere umano. La seconda, non meno importante della prima, riguarda l’autorealizzazione dell’essere umano, la sua sfera sociale, la possibilità di mettersi alla prova e crescere a livello cogitivo ed emotivo.
Dalla clava alla società rurale, per approdare alla classe operaia. Quando la fatica dell’uomo ha incontrato sul suo cammino tecnologia e modernità, la psicologia ha iniziato a considerare il lavoratore sia in termini di prestazioni, che in termini di benessere psico-fisico. Finchè anche l’universo femminile, spesso oggetto di ingiustizie e discriminazioni, sempre un passo indietro rispetto a quello maschile, gradualmente è stato riconosciuto come parte integrante del processo produttivo.
Sì perchè, se è vero che la prima grande conquista delle donne è stata il diritto di voto ottenuto in Italia nel 1946, è altrettanto vero che la prima autentica lotta delle donne ha riguardato proprio il mondo del lavoro. Quando le donne hanno compreso che l’unico mezzo possibile per raggiungere l’autonomia sia economica che psicologica rispetto al contesto familiare (come figlie e mogli) era il lavoro e quando hanno sperimentato che l’accesso a tutte le professioni era l’unico modo per elevarsi intellettualmente ed essere socialmente pari all’uomo, molto è cambiato. Una presa di coscienza lunga decenni e costellata di battaglie, ancora oggi in divenire: negli anni ‘50 e ‘60 tutele legali a favore della “lavoratrice madre”, nel 1963 l’ammissione a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici. Nel 1999 la legge che cancella il “tabù” della carriera militare e via discorrendo.
Con l’ingresso “massivo” delle donne nel mercato del lavoro, in tutti gli ambiti e ruoli professionali, compresi quelli di comando, la psicologia ha cominciato ad indagare se l’approccio al lavoro fosse eguale per uomini e donne.
La Teoria della gerarchia dei bisogni di Maslow (1954) e la Teoria igienico- motivante di Herzberg (1959), integrate da McGregor (1960) con la Teoria X e la Teoria Y del management aziendale. La Teoria dell’energia psicologica di Argyris e la Teoria dell’aspettativa- valenza di Vroom. Nessuno studio ha evidenziato discriminazioni di specie: uomini e donne al lavoro sono potenzialmente animati dalla stessa spinta interiore, la cosiddetta motivazione, che permette loro di raggiungere gli obiettivi aziendali e personali prefissati. In misura diversa, solo in presenza di segni caratteriali distinti. Come per incanto –si fa per dire – da rigide organizzazioni improntate al controllo, siamo migrati verso moderne strutture produttive regolate dalla motivazione, in cui scambio e cooperazione tra i sessi rappresentano il mix vincente.
Tuttavia, uomini e donne sono differenti dal punto di vista anatomico, Approcciano la vita in maniera difforme ed utilizzano, inoltre, in maniera diseguale l’organo del cervello, che possiede una diversa struttura a seconda che si tratti di massa cerebrale maschile o femminile e a prescindere dal quoziente intellettivo. Secondo la Società Italiana di Neurologia (Convegno Nazionale, 2013) “le donne utilizzano in maniera dominante il lobo frontale, area legata ai processi decisionali, molto connessa alle cosiddette aree limbiche, sede dell’emotività, mentre l’uomo è tendenzialmente portato a coinvolgere nel processo di ragionamento una zona più vasta di corteccia. Il processo decisionale delle donne è quindi influenzato dall’area emozionale in misura maggiore rispetto a quello degli uomini: l’uomo tende ad elaborare la
realtà basandosi soprattutto sull’emisfero sinistro, razionale, logico e rigidamente lineare. Al contrario la donna utilizza in misura maggiore l’emisfero destro che permette di compiere operazioni mentali in parallelo”. Ipotizziamo, dunque, che la maggiore sollecitazione del lobo frontale si traduca, appunto, nel gentil sesso all’opera, in una maggiore carica emotiva, che agisce sia a livello interiore che nell’ambiente circostante.
A livello intrapsichico nella donna prenderà forma, dunque, una sorta di devozione viscerale nei confronti del lavoro. Bowlby nel 1969 elaborò la nota teoria sull’Attaccamento, in particolare sul legame esclusivo che si instaura tra madre e figlio. Una dinamica simile potrebbe unire la donna (anche se non madre) al proprio lavoro, che diventa creatura pulsante, figlio simbolico, parte di sè. La sua spinta emotiva sarà formidabile ed il suo coinvolgimento pressochè totale. Ella riporrà nelle attività extra- domestiche amore, sogni, aspirazioni ed una potente volontà di riscatto. Ma al tempo stesso, se ne dipende economicamente, ella tenterà di contrastare ogni giorno le insidie del mercato, riversando sul proprio lavoro ansia, paura, instabilità e fragilità.
Sulla scena reale, di conseguenza, se le insidie del mercato non l’avranno indebolita e destabilizzata, comparirà la donna con una marcia in più. Quella che, tendenzialmente più dei colleghi uomini, saprà rendere migliore l’ambiente di lavoro grazie alla capacità di gestire e condividere emozioni positive complesse (quali ad es. autocontrollo, perseveranza, empatia ed attenzione agli altri).
La teoria sulla “emotional intelligence” elaborata da Goleman nel 1995 spiega proprio questo: non bastano competenze tecniche e un alto quoziente intellettivo per emergere sul lavoro e raggiungere il successo. Occorre una componente irrazionale, l’intelligenza emotiva, la cosiddetta QE. Che a detta di Goleman, non è di esclusiva competenza femminile. Infatti lo stesso autore, a causa delle interpretazioni incomplete e distorte pubblicate sino a quel momento dai media, nell’articolo “Emotional Intelligenzce Myth vs. Fact” (2017) ha voluto precisare che la QE è “la capacità di riconoscere le proprie emozioni, quelle degli altri, gestire le proprie ed interagire in modo costruttivo con gli altri” e che “non c’è una prevalenza di genere nei top performer”.
A conferma, però, dei cosiddetti “luoghi comuni”, la ricerca condotta da Six Seconds Italia (2008) nel nostro paese, ha rilevato che le donne possiedono una maggiore intelligenza emotiva rispetto agli uomini, con una differenza media di ca. il 6% tra i due sessi (per alcune specifiche categorie del questionario utilizzato, come ad es. “ la capacità di gestire al meglio le proprie emozioni e quelle delle persone accanto a te” si arriva quasi al 10%).
In sintesi, una sana carica emotiva può davvero fare la differenza sul mercato lavoro. E sarà l’iper stimolazione del lobo frontale, saranno il corredo genetico o il retaggio dell’educazione o il condizionamento culturale: fatto sta che le donne ne possiedono una buona dose.