Quanto sarebbe bello sentir parlare di un bando che suonasse più o meno così:
“Il bando è destinato alle imprese che devono fare a meno della risorsa in maternità. Prevede il rimborso dei costi da sostenere per tutto il periodo di assenza dal luogo di lavoro per maternità della donna e la copertura dei costi per la risorsa sostitutiva almeno durante i 5 mesi di maternità obbligatoria.”
Non solo bello. Anzi, più che bello, a dire il vero, sarebbe utile! E per individuare i fondi non servirebbe neanche sforzarsi troppo: basterebbe guardare, solo a titolo di esempio, ai programmi europei a gestione diretta, indiretta o concorrente come l’FSE+ o il Fondo di coesione oppure, all’interno del PNRR stesso, c’è la Missione 5 componente 1: politiche per il lavoro.
Allo stato attuale sono disponibili diverse tipologie di aiuto, comprese quelle che prevedono l’erogazione di somme a “fondo perduto” e che riguardano la promozione delle imprese femminili. Tuttavia, a questo non corrisponde la promozione dell’assunzione di donne. Si potrebbe rispondere che gli aiuti in realtà ci sono. Quali sono? Sempre più spesso si sente dire: “La maternità la paga l’INPS”.
La realtà è che l’INPS “paga” l’80% dello stipendio netto. Al datore di lavoro restano in carico il TFR, tutte le mensilità aggiuntive e, sulla base del CCNL applicato, una quota pari al 20% dello stipendio ad integrazione del contributo INPS per la copertura del 100% dello stipendio. Ma soprattutto, il versamento effettivo delle quote INPS è di fatto un esborso che proviene dalle casse dell’impresa e che poi può essere recuperato tramite F24. In sostanza, non si crea disponibilità finanziaria (cassa) corrente.
Altrettanto non trascurabile è il fatto che se un datore di lavoro ha assunto una risorsa (che era disposto a pagare) lo ha fatto in ragione di un’esigenza e cioè avere nell’organico una persona operativa e pienamente presente. Ovvia conseguenza: si renderà necessario individuare una risorsa sostituiva che non potrà certo essere pagata tramite F24. Tralasciando i costi di formazione della neoassunta, ecco evidente che sulla cassa dell’impresa graveranno quasi 2 stipendi e la metà della contribuzione INPS! Il che potrebbe non essere sostenibile o comunque antieconomico.
E allora, se il 35% delle donne italiane non studia, non lavora e non è in cerca di un lavoro non c’è niente di cui stupirsi. Anzi, è un fatto ovvio. Considerato che le imprese femminili nascono e vivono con successo tramite l’iniezione di fondi pubblici, come i dati confermano, dà la misura del potenziale effettivo delle donne. Perché non prevedere l’iniezione di risorse anche nei confronti di a chi dà loro la possibilità di generare valore, anche all’interno di un’azienda, e non necessariamente costringerle a costituire un’impresa? Anche perché aiutare esclusivamente le imprese femminili, assoggettandole poi allo stesso trattamento fiscale e contributivo cui è assoggettata la complessità delle imprese, significa aiutare imprese femminili che non assumeranno donne!
Mentre l’istituzione di un aiuto che finanzi i costi a carico dell’impresa, maschile o femminile che sia, per il periodo di assenza della lavoratrice e la risorsa aggiuntiva per 5 mesi vorrebbe dire mettere in campo un’azione determinante per sostenere l’assunzione delle donne. Questa è una proposta che cerca di guardare al problema per trovare una soluzione concreta. Forse non sarebbe
sufficiente, ma magari sì. Che valga la pena provarci?
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